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Al Manac

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CHAMDAM ZAKIROV

È nato nel 1966 a Rišta, nei pressi di Fergana. Attualmente vive a Mosca, dove lavora nel campo editoriale. Ha pubblicato versi su "Zvezda Vostoka" e su varie riviste russe. Nel 1996 è uscita a Pietroburgo la raccolta "Fergana".
IN ATTESA

Siedo al fiume. Località
ignota, diffidente. Con lo sguardo
tocco la collina: cespugli secchi,
le tracce della tana distrutta
di un animale. Non si vede la strada,
non so dove andare.
Bagliore rosso – la città deve essere là.
Tacciono le cicale, gli scarabei
sono scomparsi nella stoppia. Il fiume
scivola muto. Che fare?
Mi alzo, mi allontano, ritorno. Qui è
il movimento, la vita. Dietro –
una pianura, che non attraverserò.
Mi accontento di poco: mi siedo
sulla calda erba soffice. Galleggiando, passa
il cadavere gonfio di un vitello. Accanto.
Così tutto il resto…
PER UN’ORA

Ancora un po’ di quiete e la luce inonderà il cuore.
Hai abbassato la testa, le foglie tremano appena
fuori dalla
finestra spalancata. Un albero si
illude di essere un uccello, un cane sogna. Solo noi
siamo sfiorati dalle tenebre, siamo destinati
a non vegliare, ma a fantasticare
il luglio estenuante, un benefico
alito per i corpi madidi. Divoriamo un melone,
dai miei baffi cola il succo. Alla fine
noi e il letto siamo imbrattati, l’odore di cucurbitacea
ha riempito la stanza. Fuori tutto morirà, nulla
esiste: solo tu e io, e la morte –
alla specchiera – riflette il tuo corpo. Lo specchio
è cento volte più reale della nostra vita.
Passano i giorni, ma non riusciamo
a immaginare niente. Febbraio
è mitigato dai venti caldi, io mi indebolisco
al pensiero della possibile
fine. La successione di fatti
non lascia possibilità. Ho ancora
in mente il litigio di due ragazzi, che
passavano pigri sotto la finestra. Non ho la forza,
né le scarpe per uscire in strada,
che mi farebbe impazzire. Non renderò
a parole febbraio e il dolore. Un’asse
in anticamera ha scricchiolato: lì il Signore
cerca un’occupazione. Che cosa
gli proponi, Callipigia?
CANTO DELLE PERDITE: ESTATE, ANDREJ

Le quattro. Il soave odore
del mattino appena definito. La luce da principio pavida
scivola dal limite dell’orizzonte. Gli uccelli
la invocano. Tra i rami il giorno respira. E il tuo cuore
batte uniforme, più chiaramente
alla finestra si vedono i tronchi, il tremore delle foglie, la sagoma
del tetto vicino. Dopo una notte insonne la vista è più acuta, il corpo
stanco si libra: niente lo trattiene; e nel petto desolato
un grido echeggia sonoro –
impercettibile, indomito; è sepolta la speranza, gli amici
come sconosciuti vanno nelle burrascose correnti della morte.
A quest’ora. Affinché
basti il giorno per i preparativi, le compere, le telefonate,
affinché prima del tramonto – via dagli occhi. Alla finestra
il mattutino tubare di una tortora: oh, solitudine! Io sono il coro,
i solisti sono gli altri, ho una responsabilità minima: inutili
voli nell’aria torrida. E nel tuo canto sono
il ritornello. Dove ha cantato, dov’è la morte?
SULL’ALTRA SPONDA

La riva scorre lungo il fiume, incalza il balenio delle suole:
cammini e cammini. Il mezzogiorno di maggio
è infiammato sulla teglia del sole.
In ogni insetto è celato qualcosa altro.
Le pietre battono sull’acqua. Nella corrente
affonda una nube, la tua sagoma, le mie mani –
ho sete, ma l’acqua non vuole saperne. Neanche tu:
allunghi il passo. Il destino
è così concitato e la terra stride sul proprio asse, sibilano
i lacci dei bei sandali spagnoli. Ecco, solo
i fiori e le alte frecce dell’erba, ridendo,
fanno un cenno al vento. Ti saluto. Io resto qui.
Hai scelto. Le cicale. Un grappolo di girini. Un uccello.
Anche loro non mi aspettano.
GIUGNO

Nella mia vita accadono molti fatti strani, –
si spegne la luce nel portone, io resto bloccato in ascensore;
dopo una giornata afosa – un acquazzone coi lampi; una ragazza,
che conosco appena, all’improvviso si intrattiene con me
e facciamo «sconcezze»; il libro
del poeta amato non mi procura piacere, – niente sembra
a posto, anche se va tutto bene. Sotto i piedi si squagliano i giorni.
Di notte stai sul letto rorido, da solo o con qualcuno:
le mani umide, il cuore in lacrime. Invece delle parole – il vuoto,
un senso di libertà, che ha nome solitudine; Marc Strand
e la sua Elegia 1969, acid jazz, il club "Crisi del genere"; versi
scritti non umanamente – si librano in aria, come
brandelli, talora come drappi di vento, svelati alle
orecchie, agli occhi, a qualcun altro – ma non
a te. Luce mia, sole mio, brezza,
amara acqua marina.
ACQUAMARINA

Le tue parole sono solo l’oscura risposta
alle tenebre delle cose, che ci accadono.
Dimmi, chi ti ha aperto gli occhi,
chi ti ha dato la possibilità di vedere ciò che è visibile?
Ecco la porta, ecco le rose secche, ecco
la mia vita, che pure sfiorisce.
Tu distingui gli oggetti e gli eventi,
il colore delle labbra e la favella che esse pronunziarono.
Fuori dalla finestra
le macchine solcano il mare di asfalto. Qui invece
la luce trasalisce, la teiera bolle,
e tutto ciò che potrei proferire
sarà probabilmente una ripetizione.
Ci insegna chi non ha nulla da insegnare.
Aleggia lo zafferano. Il velluto sul divano
si è logorato in due punti. Sulla carta una blatta
si è posata sulla Groenlandia. Perché
i giorni vengono e se ne vanno? Non
mi rimane niente. La morte
mi è vicina, come nessuno altro. Vuoi
conoscere i particolari?
OSSIDIANO

Parlare del vento, allarmare l’alba
con il languore dell’insonnia nella stanza afosa,
sempre uguale, intessuta dalla
ragnatela dei voli – zigzaganti – delle zanzare
dal corpo al sangue, dal pericolo alla delizia.
Le tue azioni – quotidiane e divine –
sono tanto levigate dall’abitudine e dal tempo,
che ormai non le noti più, come se tu fossi una tazzina,
il cui contenuto si agita per la spinta di un ignoto cucchiaino,
creatore di alchimie sulle zollette di zucchero. Alla finestra
una fioca luminescenza – quasi un fiume, buio nel buio, che scorre
lungo rive ormai esangui, e il sonno o l’insonnia
sono solo il nuovo nome della staticità, della costanza, molto
più pietosa della follia, dei miseri romitaggi, o dei
rovinosi impulsi peccaminosi, che ti agguantano
sempre in un punto interessante, ma che ti
lasciano sempre il cuore libero e vuoto. Dov’è
un medico filippino, che possa strappare
senza provocare dolore e lacerazioni
questa pompa di sangue, non più capace di nulla? Ho
voglia di parlare, ma le parole
si smorzano al buio, come candele. Non c’è
più niente. Settembre,
fine di tutto, mattino fosco.
DAVANTI ALLO SCHERMO

Attimi di una lontananza condannata:
diapositive offuscate, la memoria
di una parete scrostata.
Il brill
o della lampadina del proiettore
nel cigolio della porta. Entra qualcuno
per svegliarci.
Le parole fluttuano e svaniscono.
Il ronzio ansioso del mezzogiorno
nei sobborghi di Damasco o di Cordova,
dove si è perso il tuo squardo –
senza trovare un consolante
gesto umano, una località,
almeno una zolla di terra,
che desse forza.
Tutto è ignoto. Anche il tuo volto.
è forse possibile?

ïðåäûäóùåå  |  Õàìäàì ÇÀÊÈÐΠ


ÍÀ ÑÀÉÒÅ:

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ÏÐÎÇÀ
ÊÐÈÒÈÊÀ
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ÀÂÒÎÐÛ:

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Àëåêñàíäð ÃÓÒÈÍ
Õàìäàì ÇÀÊÈÐÎÂ
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