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Al Manac

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ŠAMŠAD ABDULLAEV

È nato nel 1957 a Fergana, dove attualmente risiede. Ha diretto la sezione di poesia nella rivista "Zvezda vostoka". Si dedica alla poesia e alla saggistica. Ha pubblicato le raccolte "Promezutok" [Intervallo] (Pietroburgo, 1992) e "Medlennoe leto" [Lenta estate] (Pietroburgo, 1997). Ha vinto il premio Andrej Belyj (Pietroburgo, 1993) e il premio della rivista "Znamja" (Mosca, 1998). È considerato il leader del movimento.
PERIFERIA

Nessun’idea. Una donna senza fazzoletto
sul capo lava i piatti. Un battito, bianche sopracciglia unite, sopra
la testa un semprevivo giallo. E un silenzio, che non prenderai
nemmeno d’assalto. Accanto al rubinetto
un bambino con una barba finta pare un pigmeo
convertito alla fede cristiana. Non è il Sud,
è un’afosa monelleria dorata, segmenti appiccicosi di scarabei morti
sono disseminati per terra. L’ampio varco tra i muri
(dove si vede la strada in pendenza) –
è un vuoto per le migrazioni. Sul legno della ringhiera
si posa un’upupa, il centro del paesaggio si sposta sull’uccello: savio
ciuffetto vigile. Dalla finestra
della tua stanzetta tutto sembra parte
della mitologia domestica (la tua amata
parolina). Gira un disco; gli oggetti
sono soffocati dalla musica, che trattiene subito
il nostro mondo. Voglio
comporre le mani per un pio giuramento:
abbi pietà, abbi pietà. Un passante
lancia uno sguardo fugace alla finestra, questo basta
per dire che non ha
rapporto con la fugacità. Le tue
uscite socratiche: ascoltare,
ascoltare e all’improvviso inserire tutto il paesaggio di gelsi
in una sola frase incantevole. L’uccello
continua a ingannarci
con l’insistenza di una metafora zoomorfa.
Periferia.

CIRCONDARIO

Ecco, tra le epifanie dei kišlak (1),
a due chilometri dalla città, si vede già
l’alveo arrugginito, noto dalla prima giovinezza,
della vecchia piscina, vuota, non v’è
nemmeno l’acqua putrida sul fondo a mosaico.
Qualcuno, con la testa scoperta, vaga tra i tronchi secchi,
il suo vecchio impermeabile è delizioso nel grigiore autunnale,
lontano dalle metropoli, sulle rovine di argille indurite –
fa un passo, senza mutare la scena inanimata:
una sporgenza pungente, poi il ponte ombroso, dietro cui
v’è un parco senza uscite con una moltitudine di statue bacate.
Un ascesso muscoso di cinque, sei lastre di ciottoli,
coperte da azzurra mucosità sulla riva sinuosa – una fronte,
un borioso baburide (2) locale con una voglia tra le sopracciglia.
Questa vaghezza si accumula per integrare l’uggia ventura –
tra tediose fobie, in giardino, nello studio del fratello maggiore,
nel salotto durante il tè di mezzogiorno.
Vieni, sconosciuto. Un nuovo vortice
mulina il velo sabbioso in un campo sinuoso
e le foglie nere battono, quasi scrollando la stoppa dalle dita,
al mattino in un raro impeto del vento di novembre.
_________
1) Kišlak, villaggio rurale dell’Asia centrale.
2) Baburide, discendente dell’illustre condottiero uzbeco Babur (1483-1530), fondatore dell’impero dei Moghul, che regnò sull’India dal 1526 al 1858.
UNA VECCHIA CASA

Una voce estranea: il vento torpido
e il sole. Le formiche vorticano attorno
alla linea del destino, come se si proiettasse
un film muto in una giornata limpida. Una mano e la vastità:
dimentichi le ricchezze più semplici. Sera, quando
il namaz (3) svela l’aria gialla sui cenci delle camere. Un gatto
fa "amen", come uno sciita che prega con una sola mano.
Nell’astrazione estiva il clima cambia, e la luce
spacca in due la quiete dei serpenti.
Soluzione?
_________
3) Namaz, nome persiano della preghiera rituale islamica (ripetuta cinque volte al giorno in ore stabilite).
ESTATE, PAESAGGIO

Colpo di sole, un bimbo nella piazza arroventata, luce
e ombra. Nella mano
di un’anziana donna luccica il rosario. Un uccello dal piumaggio
lilla strilla, si libra, mormorando
in lontananza una quieta maledizione. Afosa luminosità,
ora un giovane macellaio seminudo, trattenendo
il respiro, pare attendere che
dalla gola di un nero montone –
nella parossistica impazienza del sacrificio – scorra il sangue,
come il canto di gloria per il sole meridionale; e
poco dopo un oscuro zampillo (il sudore) fenderà
il nitido capezzolo maschile. Ma
chi ci scuoterà?
Chi violerà il silenzio incantato?
La terra, le tue labbra, l’uccello rosso.
CAMPO

Quiete, sobborgo.
Un ragazzino andava al fiume
accanto a covoni di secco fieno falciato. Lo zaino
sulla sua schiena brillava per il sole, come squame di pesce.
Non lontano, tra barbari intrecci di erbe,
giaceva un uomo, con le braccia
dietro la testa. Attraverso verghe rosa
osservava distratto il bambino, quasi
scrutasse una folla. Il suo sguardo
errava nella gialla aria scintillante, senza vedere nulla:
né i cespugli di lappola, né gli stormi di uccelli,
né la casetta rivestita di legno, né la fattoria in lontananza.
L’uomo chiuse gli occhi, si ritirò in sé,
come confuso. Il ragazzino
andava al fiume con le labbra socchiuse –
ombra color oro e rame senza macchia. L’uomo
si riebbe all’improvviso, quasi fosse stato toccato. C’era
un ragno sopra di lui, – così vicino, – sembrava
che, avendolo destato, ora si sforzasse
di avventarsi sull’uomo, come su una vittima,
attraverso una lanugine reticolare. Una ragnatela
si pose lugubre sui baffi neri e sulla bocca.
L’uomo giaceva – esanime e quieto. Il passato
d’un tratto divenne ridicolo, innocuo. Uno zigomo
fu ghermito da forti zampe rigonfie.
Attorno tremavano i petali – l’uomo
li notò e li dimenticò al contempo, quasi
compiendo la medesima azione.
Il corpo parve frantumarsi in una moltitudine di particelle,
ciascuna di esse respirava e viveva
per sé, separatamente.
Un raro pensiero balenò – non una,
due volte – nella sua coscienza. Forse:
"Desidero essere percepito come una piccolezza,
divorata da un mostro minuscolo". Il ragazzino
vide la riva, disseminata di schegge di vetro.
* * *

Fiume per sguardi veloci, concitati –
torpido caos risuonante delle onde. Il vento porta qui
il borbottio di un cane e i brandelli di vecchie foglie,
strappate dai piedi degli alberi
quasi senza rumore. Verso sera un latrato si ode così spesso,
che sembra la sagoma
dell’animale. Un uccello notturno canta
nella crepa di un arbusto, ci inquieta non il senso del canto,
ma la chiarezza, più vivace della nostra.
Quel senso, che imponiamo alla parola,
diventa inafferrabile, svanisce. Forse
è stato creato da un gesto e con esso è scomparso?
Il fiume, a differenza delle parole,
si circonda irreversibilmente della lontananza.

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ÍÀ ÑÀÉÒÅ:

ÏÎÝÇÈß
ÏÐÎÇÀ
ÊÐÈÒÈÊÀ
ÈËËÞÑÒÐÀÖÈÈ
ÏÅÐÅÂÎÄÛ
ÍÀ ÈÍÛÕ ßÇÛÊÀÕ

ÀÂÒÎÐÛ:

Øàìøàä ÀÁÄÓËËÀÅÂ
Ñåðãåé ÀËÈÁÅÊÎÂ
Îëüãà ÃÐÅÁÅÍÍÈÊÎÂÀ
Àëåêñàíäð ÃÓÒÈÍ
Õàìäàì ÇÀÊÈÐÎÂ
Èãîðü ÇÅÍÊÎÂ
Ýíâåð ÈÇÅÒÎÂ
Þñóô ÊÀÐÀÅÂ
Äàíèèë ÊÈÑËÎÂ
Ãðèãîðèé ÊÎÝËÅÒ
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